Placebo, solo una sugar pill?

JAMA Internal Medicine ha pubblicato un interessante articolo sul placebo*. Da quell’articolo proviene gran parte del testo che segue, rilanciato dal comitato NoGrazie e da Giovanni Peronato.

Nonostante fosse già stato usato, più o meno consciamente, come elemento inerte di paragone, il termine placebo venne introdotto per la prima volta in un articolo apparso sul Lancet nel 1920. Dopo l’avvento di terapie efficaci, negli anni ’40 del secolo scorso, il placebo si è indissolubilmente legato agli studi controllati. Si tratta in genere di una sostanza inerte, del tutto simile al farmaco da testare per aspetto, colore, sapore e consistenza. Proprio per ottimizzare il mantenimento della cecità, per rendere cioè più difficile per il paziente capire se sia in trattamento o meno, in alcuni trial su antidepressivi (triciclici) si è usata l’atropina, dal momento che questa mima alcuni effetti indesiderati come la tachicardia. Un placebo inerte sarebbe stato più facile da scoprire, rendendo meno evidente l’efficacia dell’antidepressivo.
Nei testi in lingua inglese il placebo è talora definito come sugar pill, ma se fosse realmente dolce, l’effetto cecità sarebbe irrimediabilmente compromesso. Così, per testare un farmaco amaro potrebbe essere necessaria una bitter pill. È stato il caso del Tamiflu, testato verso placebo usando un acido biliare, resosi però responsabile di sintomi gastrointestinali nel gruppo di controllo. Questo contribuì a mascherare alcuni eventi avversi del farmaco, che sarebbero stati ben evidenti con un placebo inerte.
Nello studio randomizzato sull’efficacia di un derivato dell’olio di pesce nei confronti di eventi cardiovascolari, si scelse come placebo un olio minerale che imitava bene le caratteristiche organolettiche della sostanza da testare. Nel gruppo placebo, però, vi fu un inaspettato incremento di alcuni marker lipidici e indici di infiammazione che il farmaco testato avrebbe dovuto ridurre. In questo modo l’efficacia della terapia risultò incrementata in modo artificioso. Usando come placebo olio di mais si ristabilì l’evidenza circa l’inefficacia degli omega3 sugli eventi cardiovascolari.
A volte la ricerca indipendente fa fatica o non riesce del tutto a procurarsi un placebo identico al farmaco da testare, per le difficoltà poste dall’azienda produttrice. È un modo indiretto per controllare la ricerca non sponsorizzata.
La scelta del placebo non è dunque senza conseguenze. In realtà le aziende avrebbero il dovere di fornire gratuitamente il placebo dei loro farmaci, ma temono i confronti testa a testa quando condotti al di fuori del loro controllo. Per concedere un placebo si è arrivati al paradosso di chiedere una cifra tale da affossare la ricerca stessa. In un altro caso, per concedere un finto apparecchio di confronto (device placebo), l’azienda ha preteso che fosse modificato il protocollo dello studio.

Negli RCT sull’efficacia dei vaccini a volte si usa come placebo attivo il vaccino per un’altra malattia. Nel caso del vaccino quadrivalente per il papillomavirus, il gruppo di controllo, diversamente da quanto appariva nel consenso informato, aveva ricevuto come placebo idrossifosfato di alluminio, adiuvante presente nel vaccino per incrementarne la risposta immunitaria. Non è stata data spiegazione del fatto, ma è facile comprendere la volontà di mascherare alcuni effetti collaterali e la sicurezza del vaccino stesso. Nello studio di efficacia del vaccino anti Covid di Astra Zeneca, in alcuni casi è stato usato come placebo un vaccino coniugato anti meningococco, rendendo difficile l’interpretazione corretta dei dati di sicurezza.
In un RCT, la risposta alla terapia (treatment response) somma anche l’effetto placebo, che va così sottratto per ottenere la reale efficacia del farmaco (treatment effect). Conoscere l’esatta composizione del placebo è dunque importante, anche se non esiste una policy condivisa circa l’obbligatorietà di dichiararla. In un’analisi del 2010 su RCT pubblicati nelle più importanti testate biomediche (NEJM, JAMA, Lancet, Annals of Internal Medicine) la composizione del placebo nella maggior parte dei casi non era specificata. Nel caso dello studio Jupiter del 2008 (rosuvastatina vs placebo in soggetti a basso rischio cardiovascolare), Tom Jefferson riferisce che la sua richiesta di conoscere la composizione del placebo è stata ripetutamente respinta, sia dall’autore principale che dello sponsor.
Il confronto con placebo è essenziale per valutare i nuovi farmaci, è una variante che va conosciuta, e le agenzie come FDA, EMA e Health Canada dovrebbero collaborare in tal senso per un regolamento condiviso. In controtendenza, Clinical Therapeutics richiede per la pubblicazione di un RCT tutte le caratteristiche del placebo usato, colore, consistenza, confezionamento, se attivo o inerte, ecc. Oggi, non definire con precisione la composizione del placebo non risponde più ai canoni di rigore scientifico, affidabilità e trasparenza di un RCT.

*Demasi M., Jefferson T. Placebo: the unknown variable in a controlled trial. JAMA Intern Med 2021;181:577-8