La Psicologia delle Parole

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La Psicologia delle Parole

Nel numero 129 de L’altra Medicina abbiamo parlato dell’importanza delle radici nelle nostre vite. Oggi, con l’articolo di Benedetto Tangocci, vogliamo parlarvi invece della psicologia delle parole. Vogliamo raccontarvi la loro importanza, storia ed il loro vero significato!

Il significato e la psciologia delle parole – di Benedetto Tangocci

Le parole sono i mattoni per pensare. Con esse traduciamo immagini, emozioni, sentimenti e desideri in un pensiero strutturato e comunicabile. Talvolta però le si sceglie senza piena consapevolezza del loro significato, delle associazioni che producono in noi e in chi ci ascolta. Alcune parole delimitano la percezione del possibile, altre lo espandono. Il loro uso inconsapevole può alterare o confondere la nostra concezione di realtà.

Inizia così il mio ultimo libro “Le Parole e la psicologia”, nel quale presento alcuni dei termini che ho più amato nello scriverlo.

La scelta non è semplice perché ogni parola è come uno scrigno che, aprendosi, spesso rivela tesori inattesi. Certo, bisogna approcciarsi con la giusta curiosità e senza pregiudizi, ma ne vale la pena.

Mi auguro che al termine di questa lettura ne converrete con me.

Ecco, pertanto, di seguito alcuni esempi, in ordine rigorosamente casuale:

  • Innanzitutto, “Signori e signore, benvenuti!”. Un tempo questa era la formula comune per accogliere gli invitati a un evento.
    Poi i signori e le signore sono divenuti sempre più rari, quantomeno nella nostra lingua. Ma non solo. A mio avviso tra le due scomparse sussiste un collegamento, poiché col linguaggio creiamo anche la nostra percezione della realtà, e in tal modo quella che per noi di fatto è la realtà.
    Oggi è normale sentire trentenni, o anche più, lamentarsi perché un adolescente incontrato per caso si è rivolto a loro dandogli del signore. Eppure, signore è appellativo di riguardo. Se in maiuscolo lo si utilizza per riferirsi a Dio. Un tempo poteva essere sinonimo di re. Il signore era colui che esercitava il dominio, la signoria, su un determinato territorio. Il termine evoca il potere, quantomeno quello che ci si aspetterebbe un essere umano adulto abbia raggiunto. Ma è un termine desueto.
  • Sempre più comune è riferirsi agli altri, e a sé stessi, come ragazzi. Perfino alle soglie della vecchiaia. Così che ragazzi lo si diventa quando si smette di definirci bambini e lo si rimane quasi per sempre.
    Il termine ragazzo sembra avere due possibili derivazioni etimologiche. Una dall’arabo magrebino raqqās, che significa “portalettere” e in senso lato “fattorino, garzone”. L’altra dal greco antico ῥάκος (rákos), cioè “cencio, straccio”, da cui la metonimia che indica il giovane servo.
    In entrambi i casi è interessante notare che la parola, prima di indicare la giovane età, esprimeva la condizione servile di chi svolge umili compiti e la miseria cui era obbligato dalla sua condizione di povertà. Il termine neutro per definire chi ancora vive in quella condizione di eterna giovinezza, cui molti anelano, sarebbe semmai giovane, diretto derivato del latino iŭvĕnis.
  • Le abitudini sono i nostri abiti psichici. Entrambi i termini vengono dal latino habĭtus, da habere, “avere, possedere”, anche un determinato comportamento.
    Dalla stessa radice deriva anche abitazione, il luogo in cui si vive, il proprio piccolo mondo. Un tempo si possedevano pochi vestiti, a volte solo uno, e pertanto li si indossava spesso e a lungo. Oggi che gli armadi sono pieni si cambia di abito con grande facilità.
    Lo stesso non si può però dire delle proprie abitudini psichiche che spesso sono viste come se fossero parti non modificabili di noi. O meglio, si sa che si possono cambiare ma si teme che modificarle trasformi anche aspetti sostanziali di sé.

Eppure, cambiandoci di abito ci si sente sì diversi ma nell’apparenza, non nell’essenza.

Comunque, almeno qualcosa ogni tanto andrebbe cambiato. Altrimenti si finisce con l’identificarsi con delle abitudini che, se sempre le stesse, anche a chi osserva appaiono lise e logore, come lo sarebbe un abito indossato tutti i giorni per decenni.

 

  • Persona e personalità vengono dal latino persōna, probabilmente a sua volta dall’etrusco phersu, “maschera”, forse calco del greco πρóσωπον (prósōpon), “faccia, volto”.
    Altre ipotesi legano il termine a per, “attraverso”, e sŏnare, “suonare”, in riferimento agli attori del teatro classico che parlavano attraverso la maschera lignea che indossavano in scena; o anche a pars, “parte, funzione, ruolo” di un personaggio.
    Come che sia, tutte le ipotesi concordano sul fatto che persona (e quindi personalità) sia la maschera con la quale si recita quella che si ritiene essere la propria parte.
  • Errore, dal latino errŏr, viene da errāre, “vagare”, deviare dalla retta via, da una regola o da una norma di comportamento. Forse a causa dell’aver preso un abbaglio, da cui con sovrapposizione di s- deriva sbaglio.
    Mentre però lo sbaglio è un fraintendimento, etimologicamente, l’errore è un peccato. La colpa sta nell’aver violato il percorso indicato. Per quanto, in assenza di deviazioni non sia possibile alcuna nuova scoperta.

Credo che ogni tanto sia lecito errare, in entrambe le sue accezioni. Per altro un noto detto ci dice che è nella nostra natura: “errare humanum est, perseverare autem diabolicum”. Non è tentare altre vie da quelle consuete che è diabolico, bensì lo è proseguire nell’errore, una volta che una scelta si è dimostrata tale.

Questi sono alcuni esempi della psicologia, del significato e del senso delle parole che ho esplorato.

Io credo che conoscerne l’etimologia possa aiutarci a meglio comprendere il modo in cui, parlando, creiamo la nostra interpretazione della realtà. Le parole infatti sono vive, col tempo si stratificano e ramificano nuovi significati.

Sempre però, come fanno gli alberi, attingono il nutrimento dalle radici, gli etimi. Nutrimento che, consapevoli o meno che se ne sia, influenza il pensiero; come gli ingredienti di un alimento agiscono sul corpo, senza che per ciò sia necessario conoscerli. Credo che valga la pena riflettere su ciò che nutre la nostra anima.

Mi piace chiamare Psico-Etimologia questa riflessione sulla parole.
Termine che è più giocoso che scientifico, poiché affronta la questione con, al contempo, la leggerezza e la serietà (ma non la seriosità) di cui ogni gioco abbisogna per risultare piacevole.

Per approfondire l’argomento e per scoprire il libro di Benedetto Tangocci, Vi aspettiamo in edicola e online con il n. 129 de L’Altra Medicina!!!