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Dr. Massimo Fioranelli

Connessioni inattese; arte, cuore e neuroscienze

Il cervello immanente

La coscienza rappresenta uno dei temi più complessi e dibattuti nella filosofia, nelle neuroscienze e nelle scienze cognitive. Si tratta di un fenomeno sfuggente, che coinvolge aspetti tanto neurologici quanto esperienziali, e la cui natura e origine rimangono in gran parte misteriose. Nell’introduzione del suo Dizionario di Psicologia, lo studioso inglese Stuart Sutherland esprime un doloroso senso di frustrazione: La coscienza è un fenomeno affascinante ma sfuggente: è impossibile definire che cosa sia, che cosa faccia, o perché si sia evoluta.

La coscienza in effetti e’ l’attributo che definisce la mente, o semplicemente il pensare, qualcosa d’immateriale, di assolutamente non misurabile.

Ma perché un anestetico o un trauma possono annullare tutto il nostro livello di coscienza?

Il risveglio intraoperatorio è un evento piuttosto raro: circa un paziente su mille riferisce di essere stato cosciente durante un intervento chirurgico che prevede anestesia generale. Fortunatamente, è rarissimo che il soggetto provi dolore. L’esperienza, tuttavia, può costituire un trauma indelebile con gravi sequele psicologiche. L’angoscia e il trauma sono in larga parte dovuti alla completa paralisi che il soggetto sperimenta durante il risveglio. Infatti, subito dopo aver reso il paziente incosciente tramite la somministrazione dell’anestetico generale, e prima che il chirurgo pratichi l’incisione con il bisturi, in anestesiologia si usa il curaro poiché impedisce che i muscoli producano violente contrazioni riflesse durante le varie manipolazioni chirurgiche. Non è ancora ben chiaro perché alcuni pazienti, che hanno ricevuto una dose di anestetico adeguata, recuperano coscienza in sala operatoria. Il problema è che, quando questo accade, è molto difficile accorgersene. La completa paralisi dei muscoli blocca qualsiasi possibilità di comunicazione volontaria tra il paziente e i medici.

Se l’introduzione della ventilazione meccanica ha reso la linea tra la vita e la morte più definita, essa ha irrimediabilmente confuso i confini della coscienza. Oggi, milioni di pazienti con lesioni cerebrali devastanti (che solo cinquant’anni fa sarebbero state letali) sopravvivono al coma ed entrano in stati di coscienza mai sperimentati prima nella storia dell’uomo; milioni d’individui che finiscono per trovarsi in universi inaccessibili e sospesi. Tra la morte cerebrale e il risveglio cosciente si è aperto uno spettro di possibili esiti del coma che, per il momento, riusciamo a classificare solo in modo approssimativo e molto grossolano. Un paziente in coma, se non muore, invariabilmente apre gli occhi nel giro di qualche settimana. L’apertura degli occhi segna la fine del coma, che rappresenta sempre uno stato di transizione.

I pazienti locked-in, non di rado, sono erroneamente diagnosticati come  in stato vegetativo, soprattutto nei primi mesi della malattia. Fortunatamente, la maggior parte di essi recupera nel tempo la capacità di muovere le palpebre e gli occhi verso l’alto e verso il basso; questi, infatti, sono gli unici movimenti che dipendono da fibre che lasciano il tronco encefalico a monte della lesione. Spesso sono proprio i familiari i primi ad accorgersi che questi movimenti oculari non sono casuali, che rappresentano il faticosissimo e disperato tentativo di segnalare la coscienza. Una volta scoperti e riconosciuti come coscienti, i pazienti locked-in imparano a utilizzare i movimenti oculari residui per stabilire un codice binario e per instaurare una comunicazione inizialmente basilare (si/no) che nel tempo diviene progressivamente più efficiente (fino ad arrivare, spesso con l’ausilio di un computer, a scegliere le lettere dell’alfabeto). Grazie a questo stretto canale di comunicazione, letteralmente ridotto a un filo che connette la corteccia cerebrale a un muscolo degli occhi, i pazienti locked-in possono finalmente dire che esistono, che hanno sete o che provano dolore o che sono scomodi in una certa posizione, che sono disperati, o felici. Tra i pazienti che riescono a comunicare in qualche modo con il mondo esterno, molti riferiscono una qualità della vita che è di poco inferiore rispetto a quella percepita dagli individui sani.

L’obiettivo di questa relazione è quello di tracciare un percorso che, pur nella complessità del fenomeno, possa stimolare nuove riflessioni e orientamenti per le ricerche future, che possano infine avvicinarci alla comprensione di uno degli aspetti più misteriosi della condizione umana.

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