I danni della tecnologia – cosa possiamo fare?

i danni della tecnologia, la tecnologia ci fa male

I Danni della tecnologia

Prendersela con la Tecnologia diventa sempre più difficile, impegnativo, oggetto di stigmatizzazione sociale, e il possibilismo riformista ammanta ormai ogni analisi critica del tecno-mondo, ma pensate ai danni che la tecnologia sta provocando?
Possiamo fare qualcosa per liberarci dalla morsa tecnologica che tutto invade e pervade? L’augurio è che contino di nuovo le Persone coi loro sentimenti, le loro emozioni e i loro rapporti faccia a faccia; gli Animali e le piante col loro essere; e i Minerali, i Boschi, i Fiumi, i Mari, i Venti, le altre Energie della Terra e le Relazioni tra tutto ciò che vive.

In altre parole: le nostre radici naturali

“Esiste un prezzo che paghiamo tutti i giorni per utilizzare gadget tecnologici, guadagnare attraverso speculazioni di borsa, dare il nostro consenso a un governo in carica, sottometterci ai protocolli di un’autorità sanitaria. È sull’entità di questo prezzo che dovrebbe giocarsi la partita della nostra disponibilità ad accettare la vita che siamo costretti a condurre o disapprovarla”.

Nello specifico, per quel che riguarda la Tecnica, è ovvio che presenti aspetti che possono essere valutati positivamente, ma essa sottrae molto più di quanto consegni.Il fatto che già oggi si parli apertamente della necessità di risolvere con la Tecnologia i danni portati dalla Tecnologia, sociali, ambientali, relazionali o cognitivi, dimostra quanto questo fenomeno sia pervasivo e devastante.

Chiunque rabbrividirebbe all’idea di risolvere i problemi dell’inquinamento attraverso una maggiore contaminazione ambientale, o di combattere il femminicidio incentivando l’omicidio di donne.  Così, mentre non si manca di promettere quanto la Tecnologia ci agevoli la vita, quel che accade tutti i giorni è che essa (s)travolge il nostro mondo naturale, il nostro modo di essere, le nostre relazioni, le nostre capacità critiche e i processi della cognizione umana.

Tutto è talmente finto che, ormai, la realtà è “virtuale”, l’intelligenza è “artificiale”, il cibo è “transgenico” e persino l’aria è “condizionata”; la scuola, il lavoro e pure il sesso sono diventati “telematici”, esattamente come la Medicina, i cui sacerdoti-guaritori non visitano più guardando, auscultando o palpando il paziente ma ordinando esami per immagini, e redigendo scartoffie burocratiche per gli altri anelli della catena di montaggio informatizzata.”

La santa Tecnologia non si discute, ma intanto, siamo così estraniati dal mondo che ci circonda che non siamo quasi più in contatto nemmeno con noi stessi.

Tutto, infatti, nel mondo hi-tech pare procedere da solo, senza bisogno di noi; e a nulla vale arrovellarsi il cervello per cercare di comprendere cosa ci stia accadendo perché la Tecnologia non supporta un universo naturale che abbia cura di chiedersi “perché”, ma uno culturale che abitua a chiedersi “come si fa”: come si fa a collegarsi a internet? Come si fa a scaricare questa app? Come si fa a sintonizzare il decoder, a inserire la card, a digitare il codice?

La tecnologia ci sta aiutando o sta provocando dei danni?

Nel mondo delle macchine non è richiesta alcuna partecipazione attiva degli esseri viventi alla loro vita, ma solo una presenza passiva che li renda compatibili con il nuovo standard imposto dalla progressione tecnologica.

Siamo in gabbia! E siamo anche in grave pericolo, perché questa condizione di detenzione ci tiene prigionieri nel vagone di un tecnotreno che corre verso il dirupo, ossia verso la distruzione dell’u- mano che è noi e del mondo naturale che ci vive attorno. La forza della civiltà, infatti, non è semplicemente quella di averci messo tutti in gabbia, ma è quella di averci espropriato delle nostre capacità di specie lasciandoci in balìa dei ritrovati del Sistema checi tiene in gabbia.

In questo modo siamo diventati noi i primi difensori della nostra prigionia (si chiama domesticazione).
Ovviamente, non serve raccontarsi che, siccome viviamo nel Sistema, il Sistema non possa essere criticato; perché ci viviamo appunto da prigionieri, non da volontari. Siamo nati in cattività da genitori nati in cattività, ed è la domesticazione che rafforza questo stato. Il fatto di trovarci così, però, non ci impedisce di criticare la logica che ci ha ridotto in questa condizione.

Viviamo nel Sistema, e allo stesso modo in cui un detenuto è costretto a nutrirsi alla mensa del car- cere e a dormire sui materassi fornitigli dall’amministrazione penitenziaria, anche noi, imprigionati dalla dipendenza verso i rimedi del Sistema, ne facciamo uso. Ognuno di noi, infatti, proprio perché chiuso in gabbia, vive quotidianamente le sue contraddi- zioni, i suoi compromessi, le sue incongruenze.

Basta aver solo un minimo di sensibilità ecologica per essere già in aperta contraddittorietà con se stessi, perché anche il semplice abitare in città, il circolare per le strade lastricate (comprese le piste ciclabili), il prendere un treno, l’indossare vestiti industriali o il mangiare cibo coltivato attesta una precisa inconciliabilità con qualsiasi discorso ecologico, posto che tutti quei bisogni sono soddisfatti violentando la Natura.

La via della coerenza, in- somma, è una strada chiusa, e raccontare che non si possa criticare la civiltà solo perché siamo stati resi ostaggio dei suoi rimedi è il trucco dialettico col quale questo mondo in avanzato stato di disfacimento ci tiene alla catena psicologica del suo progetto. Quel che vale, quando si è rinchiusi in gabbia, non è la coerenza del proprio contegno, ma la consapevolezza di quel che si compie.

Quest’ultima, lungi dal salire in cattedra per condannare o assolvere, si preoccupa della comprensione dei fatti, spingendo le persone verso la responsabilizzazione dei propri comportamenti perché le induce a fare i conti con la loro coscienza: dunque a valutare, secondo la loro libera autodeterminazione, quando, come e se modificare i propri atteggiamenti qualora fossero in discussione.

La questione non è quindi quella di usare o non usare oggetti tecnologici, perché in un mondo ipertecnologico spesso non possiamo farne a meno. Anche i più acerrimi nemici di quest’ordine sociale fanno uso di prodotti tecnologici (il presente articolo è stato scritto con un computer).

Ma chi li usa con disprezzo, cercando di farne a meno il più possibile, e con la perfetta consapevolezza che la Tecnologia non sia né comoda, né neutrale, né immanente, bensì diretta a devastare il Pianeta e a renderci tutti schiavi del Sistema, non ha nulla a che fare con chi invece crede che la Tecnologia sia liberatoria e utilizza i suoi prodotti beandosi di questa inarrestabile caduta nella menomazione e nella distruzione eco- logica senza soluzione di continuità.

Non si tratta, dunque, di strappare dalle mani della gente i dispositivi di cui si serve. Vietare l’utilizzo di prodotti della Tecnica, o impedirsene l’uso laddove essi siano divenuti indispensabili, servirà soltanto a creare un esercito di frustrati adoratori di apparecchi elettronici.

Occorre invece agire progressivamente per farne scemare il bisogno. L’unico modo per vedere la fine della Tecnologia ed evitarne i danni è quello di sentirsi atei tecnologici, e combattere quindi per riabilitare un mondo nel quale non ci sia più il bisogno di Tecnologia.

Continua a leggere l’articolo di Enrico Manicardi sul n.129 de L’altra Medicina. Lo trovi in edicola e online…ti aspettiamo!