Accettarsi per non uniformarsi

La felicità, l’armonia, la stessa salute mentale, richiedono come presupposto l’accettazione di se stessi e della realtà. 

Col passaggio dalle piccole comunità (nelle quali la percezione di normalità era in gran parte affidata ai valori tradizionali e alla diretta conoscenza dei concittadini) alla società globalizzata, la costruzione della norma di riferimento è oggi in gran parte formata dai sociale dai grandi media che, amplificando la reale diffusione di una tendenza, possono farla credere più diffusa di quanto effettivamente sia. Falsare la percezione di diffusione di una tendenza comporta che essa sarà imitata da alcune persone che diversamente non lo avrebbero mai fatto poiché, come abbiamo visto, il concetto stesso di normalità confonde in sé le idee di diffusione e di consuetudine con quella di riferimento per le azioni.

Si può facilmente comprendere cosa tali dinamiche comportino a livello sociale (io stesso ne ho scritto in vari articoli apparsi su L’Altra Medicina). Meno intuibile è in che modo condizionino anche la felicità e la stessa salute mentale dei singoli individui. Per capirlo occorre partire dal concetto di “sé”, ovvero dal modo in cui ognuno di noi vede se stesso. Si deve innanzitutto distinguere tra quelli che sono stati chiamati “sé reale”, “sé percepito” e “sé ideale; ovvero ciò che effettivamente siamo, ciò che riteniamo di essere e come vorremmo essere. La propria felicità deriva dal rapporto tra queste idee di se stessi, che raramente coincidono. Se si percepisce se stessi simili al proprio ideale di sé l’autostima è alta e conseguentemente se ne è soddisfatti. Al contempo però se il sé percepito si discosta molto dal sé reale, ovvero se ci si illude di essere come si desidera, la sensazione di soddisfazione è precaria poiché la propria autopercezione può essere smentita dal confronto con la realtà. I cosiddetti meccanismi di difesa dell’io inconsciamente tentano di proteggerci da tale rischio, al prezzo però di importanti conflitti interni e esterni, che a loro volta comportano sofferenza. Se viceversa il proprio sé percepito si discosta molto dal proprio ideale prevale la sensazione di frustrazione, o di vero e proprio sconforto. Talvolta tale divario è frutto di una svalutazione di sé che, in presenza di un sé reale non così dissimile dall’ideale, ne falsa la percezione provocando infelicità. Più spesso però il divario tra il sé percepito e quello ideale è causato dall’irrealizzabilità, o incoerenza, di quest’ultimo.

Che sia chiaro però: accettarsi non è sinonimo di rassegnarsi. Anche se troppo spesso i due termini sono erroneamente confusi. Si rassegnano le armi, o le dimissioni, pur discordando ci si rassegna al volere della maggioranza e con ciò ci si arrende e si rinuncia a portare avanti i propri intenti. Viceversa si accetta un incarico, un regalo o una proposta, vi si acconsente, la si accoglie. Anche etimologicamente, “ad” ha valore di intenzione, e “cepere”, da “capere”, significa “prendere”. Rassegnarsi è rinunciare ai propri desideri. L’accettazione getta invece le fondamenta necessarie alla realizzazione di qualsiasi cosa miri ad essere più che una mera fantasticheria. Infatti, per permetterci di non accettare qualcosa che in fondo si sente essere reale devono intervenire i meccanismi di difesa nevrotici della rimozione o della negazione, o quelli psicotici del diniego e della distorsione della realtà, che costituiscono i principali ostacoli alla realizzazione dei propri desideri. L’idea che per concretizzare i propri sogni sia necessario prendere atto della situazione è contenuta nelle stesse accezioni del verbo “realizzare” che, oltre a “rendere reale”, significa anche “comprendere chiaramente”, “rendersi conto di”. Diversamente non resta che rassegnarsi a vivere in un proprio mondo di fantasticherie o adattarsi a indossare l’uniforme che ci viene proposta. Per non uniformarsi e riuscire a essere veramente se stessi è innanzitutto necessario accettarsi.