Osiamo pensare con la nostra testa. Non siamo automi, siamo esseri umani

Osiamo pensare con la nostra testa. Non siamo automi, siamo esseri umani

di Monica Bozzellini*

 

“Osare opporsi alla pratica molto usata del brainwashing”, “osare esserci anche quando costa”, “osare essere unici”. Osare è la parola chiave scelta per la diciottesima edizione di Filosofi lungo l’Oglio, maratona del pensiero che si fa nomade, un viaggio insieme a trenta pensatori italiani e stranieri, con 30 incontri in 23 municipalità, tra le provincie di Bergamo e Brescia.

Un cammino che, grazie a Francesca Nodari, filosofa che ha ideato e dirige il festival, fa tappa anche su Quoziente Humano.

Qual è la sfida dell’osare oggi?

È tornare a pensare con la propria testa, uscire da quello stato di minorità in cui spesso ci troviamo rinchiusi, perché assaliti da una miriade di notizie, tante fake news, e rischiamo di diventare passivi rispetto a ciò che ci circonda. Abbiamo scelto ‘osare’ come parola chiave, perché ha da un lato un aspetto estremamente positivo: il coraggio di dire si, di dire no, di utilizzare un linguaggio ‘ecologico’ che ci porti a mettere in pratica quella parola un po’ maltrattata che si chiama dialogo e di cui oggi abbiamo un grande bisogno.

Osare significa anche servirsi di un linguaggio, parresiaco direbbero i greci, che dice la verità, senza buonismi, senza giri di parole.

La cito, ‘implica anche tornare ad avere speranza’.

Sì, e calare questo tema nelle terre che hanno pagato un prezzo altissimo durante l’annus horribilis della pandemia ha un significato molto forte, qui l’elaborazione del lutto è stata estremamente complessa e, a mio avviso, è ancora in corso per molte persone. In un mondo iperconnesso ci si è sentiti di colpo sentiti prigionieri; calare il tema in queste terre significa anche osare guardare al di là della siepe, come direbbe Leopardi, recuperare quello sguardo attento, curioso e fiducioso sull’avvenire.

Comprendere, domandarsi, scoprire

E questo in un contesto molto più ampio, che è il nostro presente, in cui, come diceva un grandissimo sociologo scomparso, Zigmunt Bauman, viviamo in una situazione retrotopica, ovvero, per la condizione di instabilità che nel nostro paese si sta vivendo da troppo tempo, le persone, soprattutto i giovani, tendono a guardare verso il passato e non riescono più a spostare lo sguardo verso un futuro.

Quali parole ci possono aiutare a rialzare lo sguardo?

In apertura del Festival, Ivano Dionigi ha individuato tre verbi che costituiscono un suggerimento per vivere con delle teste ben fatte e non solo piene di informazioni: intelligere, il comprendere. Diceva Spinoza, davanti alle difficoltà non c’è da ridere, non c’è da piangere, ma c’è da capire per uscire dal guado, per cercare di risolvere i problemi che ci sono nella nostra quotidianità. E c’è, poi, bisogno di interrogare, il domandare. E, infine, il terzo verbo, invenire, scoprire: quello che c’è già di noto, con il coraggio di ‘inventare’ quel novum che ci consente di andare al di là di una realtà complessa, per vivere pienamente e meglio la propria esistenza.

Viviamo in una società che ci vuole bambini, incapaci di avere un nostro pensiero.

Non c’è più Kant che ci dice ‘fuori dal girello’, di diventare adulti e, purtroppo, questo è un problema molto legato a quella che è diventata una tecnocrazia: il velocissimo dirigersi verso l’intelligenza artificiale, la competizione tra l’uomo e la macchina, dove l’uomo è antiquato direbbe Günter Anders, diventano pericolosi. La tecnica deve restare un mezzo non può diventare un fine. Non credo di essere Matusalemme, ma non riesco a capire perché questa tecnologia stia diventando una protesi indissociabile da noi stessi.

 

Siamo unici e abbiamo bisogno dell’altro

Il tema del suo intervento all’interno del festival è osare essere corporei.

Nell’era in cui il corpo è esibito, cosificato, violentato, in cui le donne continuano a morire di femminicidi, paradossalmente, si è persa la consapevolezza della corporeità. Rimaniamo figli di Cartesio, c’è una dicotomia tra la testa e il corpo, tra la res cogitans e la res extensa, si fa fatica a comprendere fino in fondo che siamo una unità psicofisica e ciascuno di noi è una persona unica nella sua peculiarità. Grazie al cielo non siamo seriali, almeno fino ad ora, non siamo prodotti riproducibili in serie.
Serve riaffermare il senso della grandezza, della bellezza, della nostra unicità, nella nostra fragilità e finitezza. Tornare a essere consapevoli che siamo finiti e mortali non è una considerazione triste e banale, ma un tentativo molto forte di farci rendere conto che abbiamo del tempo prezioso a disposizione e che dobbiamo deciderci, come direbbe il mio grande maestro Bernard Kasper, dobbiamo prenderlo sul serio, perché abbiamo bisogno dell’altro.

Come si fa a prendere sul serio il tempo?

Per farlo e dare corso al fatto che abbiamo bisogno dell’altro per vivere e crescere, dobbiamo partire da noi stessi. Dobbiamo prendere delle decisioni, tornare a intelligere, come dicevo, diventare fonti di domande che non ci facciano rimanere sulla superficie nella quale la nostra società dei consumi e della tecnica, dove l’uomo è diventato un phono sapiens, direbbe Byung-chul Han, vuole farci restare.

No, noi siamo molto altro che un mero phono sapiens, o un mero automa in competizione con una macchina: va ribadita con forza e qua si deve osare farlo, la nostra umanità, la nostra unicità.

Relazioni feconde

Ha parlato di separazione tra mente e corpo. Aggiungiamo le emozioni.

Il recupero delle emozioni è fondamentale, tornare ad ascoltare se stessi, quel silenzio che non è una mera contemplazione, ma serve ad aprirsi all’altro, o diventeremmo tutti, direbbe Leibniz, “senza porte e senza finestre”. In un certo senso, siamo in questa situazione, perché le emozioni oggi sono bloccate, si ha paura, ma si ha paura di dire che si ha paura, perché la società ci ha voluti così: perfetti. Molti studiosi ripetono che siamo in una società, e non è una delle migliori possibili, dove v’è molta rabbia, senso del rancore, si arranca, forse per quel timore di non avere più la ‘certezza’ di un presente stabile. Ci troviamo forzatamente irretiti in un presente dove ci è chiesto il massimo e, così, dobbiamo soffocare la paura, il sentirci fragili e il bisogno di una parola che viene dall’alto.

E di amore…

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Monica Bozzellini

Oltre 30 anni di esperienza nel mondo del giornalismo e della comunicazione aziendale. È fondatrice del sito di informazione Quozientehumano.it e di Humaneyes | comunicare positivo, realtà di consulenza alla comunicazione positiva attraverso la creazione di contenuti di comunicazione interna e attività di formazione